In Giovanni è molto sottolineato questo senso del divenire della fede. La fede non è qualcosa che c’è o non c’è: o tutta o niente. Si svolge in un cammino. Dei due discepoli. Pietro è presentato come testimone autorevole dei segni della risurrezione (è lasciato entrare per primo nel sepolcro): di fronte ad essi però resta incapace di capire.
L’altro discepolo, invece, ha visto di più di quanto colpisce gli occhi ed i sensi: “vide e incominciò a credere”, inizia cioè a fare il passo dal vedere al credere. Perché? Ci sono serie di annotazione che lo fanno capire: è il “discepolo che Gesù ama”. Ancora una volta non è soltanto un’annotazione storica ma indica il “tipo” del discepolo che sta in rapporto affettivo con il Maestro; “corse più veloce”; “arrivò per rimo”. Queste annotazioni rivelano il primato del carisma della fede fondata sull’ affettività: solo chi ama sa vedere. Tuttavia non è ancora penetrato fino in fondo: “Non avevano ancora compreso la Scrittura che egli doveva risuscitare dai morti”. Non si erano ancora ricordati delle parole di Gesù, quando aveva parlato del «terzo giorno …». Credere, per San Giovanni è sempre un ricordare. E questo modo di concepire la fede ha una pregnanza particolarissima sul modo di interpretare l’esistenza del cristiano nella storia: il cristiano è colui che in tanto può vivere, qui ed ora, in quanto ricorda; la sua esistenza è determinata dalla memoria del Signore. E quindi la vita interiore si sviluppa nell’ attivare la coscienza credente in una costante relazione con il Signore risorto.
Uguale dinamica per Maria. Anch’essa è messa di fronte ai segni della risurrezione: ma deve andare al di là di questi segni per potere credere. Maria è ossessivamente chiusa sul “hanno portato via il mio Signore”, – annotazione ripetuta per ben tre volte vv. 2.13.15-: cioè Maria è fissa sul sepolcro vuoto e non ne sa cogliere il valore di indizio. E’ prigioniera del suo progetto di fare il lamento sul cadavere di Gesù. “Stava fuori” presso il sepolcro piangendo, Sta fuori: non è ancora finito l’itinerario: il cammino è ancora abbastanza lungo per arrivare a credere veramente. Mentre piangeva si curvò verso il sepolcro e vide due angeli vestiti di bianco, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dalla parte dei piedi, là dove giaceva il corpo di Gesù. E le dicono: «Donna, perché piangi?». Essa risponde: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’abbiano messo». Gli angeli sono messaggeri di Dio, sono segni di Dio. Potremmo anche dire che, al di là di quello che gli apostoli hanno visto, qui c’è un passo avanti. Le cose viste diventano messaggeri di Dio, segni i Dio, parole di Dio: «i segni dei tempi», se vogliamo.
Questi sono i segni della Resurrezione. Quella di Maria non è ancora la fede luminosa. Se l’avesse, saprebbe dov’è il Signore. Non lo sa ancora. Non riconosce gli angeli: si volta per continuare la sua ricerca altrove, nella tomba. Ma ecco accade qualcosa: c’è un cambiamento nella scena. “Si voltò indietro”: non è il solo gesto fisico del girarsi, è invece l’attitudine spirituale: è fare il collegamento tra la storia di Gesù e quello che sta per succedere adesso. La fede cristiana è l’incontro con una persona storica, non in un sistema di idee. Questo vuol dire anche convertirsi, voltarsi.
Sono i diversi livelli di significato di un verbo puramente descrittivo. Vide Gesù che stava là, ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Quella credendo che fosse il giardiniere gli disse: “Signore, se l’hai trafugato tu, dimmi dove l’hai messo, e io andrò a riprenderlo». Gesù le dice: «Maria!». E ancora una volta, “voltandosi” essa rispose in ebraico: «Rabbunì!», cioè Maestro. Notiamo quanti passaggi: Maria ha visto, ma è ancora in ricerca. Vede Gesù, ma non riesce ancora a riconoscerlo, non sa ancora. Il «voltarsi» dice che bisogna non dimenticare che Gesù non è fuori della storia. Quel Gesù storico, che ha incontrato e che la chiama per nome, Maria, evoca tutto quello che c’è stato prima, per cui il dialogo può essere fatto nei medesimi termini. E può rispondere: Rabbunì. Ha riconosciuto il Signore, ma non è ancora la fede.
C’è ancora un passa da fare. Pensa di avere Gesù come prima, di ristabilire con Lui gli stessi rapporti di prima. Ma i rapporti con il Cristo Risorto, quello del tempo della Chiesa, non sono configurabili secondo l’immagine dei rapporti vissuti prima. Ora i rapporti sono di presenza e di assenza. La presenza del Signore è nel dono dello Spirito Santo: questo fonda la storicità.. Così è per noi. Dobbiamo seguire Gesù Cristo, ma non in modo ripetitivo; dobbiamo voltarci a Lui, ma non possiamo trattenerlo come se fosse una statua.
Va’ dai miei fratelli
Sono coloro che, come la Maddalena, hanno già creduto, eppure la loro fede deve crescere ancora. E dì loro: “Ascendo al Padre mio e al Padre vostro”. Non si tratta di un’ascensione fisica, ma del nuovo modo di esistere del Cristo, che comporta quel rapporto di presenza-assenza che il Vangelo di Giovanni ha lungamente descritto nel discorso dopo la Cena, quando il Signore dice. «E bene che me ne vada … però vi manderò lo Spirito Santo … lo Spirito Santo è come un altro me, eppure non è me … prenderà del mio e ve lo darà» (cf 16,7. 14). Di qui nasce la situazione paradossale del cristiano: di essere tutto compreso dentro Gesù Cristo, di esserne memoria, ma di non poterlo copiare, semplicemente ripetendo quello che Lui ha fatto. Il cristiano non è chiamato semplicemente a conservare un passato, ma a ritualizzare nel flusso vivo della storia la Presenza risorta del Signore attraverso l’energia dello Spirito.
Ho visto il Signore
L’espressione “Padre mio e Padre nostro” indica il rapporto profondo di Gesù con il Padre. “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3). La singolarità di Gesù Cristo sta nel fatto che Egli può dire, in modo assolutamente unico: Padre mio. Però, questo è un fatto che riguarda anche noi: poiché in Lui, siamo realmente “figli” sia pure in una differenza ontologica. E così “i fratelli” sono coloro che possono esprimere la medesima appartenenza alla comunità che nasce da Gesù Cristo: la Chiesa. Così si realizza la vita eterna: percepirsi nella relazione trinitaria. Giovanni ha sempre il senso della Chiesa, il senso degli apostoli, di tutti gli uomini, cioè della comunità cristiana per cui scrive, che è riferita a Gesù Cristo, e ne continua nella storia la presenza. Ora Maria di Magdala, certa dell’incontro con Gesù, ha il mandato di andare ad annunziare ai discepoli che “ha veduto il Signore”. Quanta strada! Quanto cammino della fede nel buio, in un buio che sta diventando mattino. Ora si può dire: “Ho visto il Signore!”. «Ho visto», cioè ho ritrovato Gesù, che è Colui che sta presso il Padre, Padre mio e Padre vostro; “ho veduto il Signore” e posso annunciare ciò che mi ha detto.
La preoccupazione dell’evangelista Giovanni non è quella di raccontare come sono andate le cose, ma di far vedere il cammino che ogni cristiano deve percorrere per credere nella Resurrezione. Finora abbiamo meditato sulla corsa di Pietro e di Giovanni al sepolcro e il percorso intricato di Maria di Magdala, oggi vedremo quello dei discepoli e successivamente l’incontro con Tommaso. Il percorso della fede non è immediato, implica un coinvolgimento di tutta la personalità. Da questo punto di vista, Giovanni ci fa notare, come Pietro e Giovanni corrono, mentre Maria di Magdala deve vedere, oggi scopriremo che Gesù si fa toccare, si mette a disposizione dell’umano: non è un puro spirito, un fantasma. Si presenta ai discepoli in una umanità che essi fanno fatica a vedere, perché nessun uomo ha mai visto un corpo risorto, nessuno ha mai fatto una simile esperienza, tuttavia non è un’allucinazione e Gesù, proprio per questo, si fa vedere, toccare, sperimentare così da coinvolgere tutti i sensi dell’uomo. L’uomo infatti può conoscere solo attraverso essi. Gli antichi filosofi sostenevano che non si può avere niente nel pensiero se prima non lo si è sperimentato attraverso i sensi.
Il vangelo ci racconta di un evento così reale che passa attraverso l’esperienza sensoriale. Ma non si tratta solo di un vedere empirico, intellettuale ma di vedere attraverso la fede. Noi non siamo esseri semplici, il nostro corpo e la nostra anima non sono due entità separate, sono un’unità inscindibile. Il corpo non è il contenitore dell’anima, siamo un’unità inseparabile a tal punto che è giusto dire: “Io sono il mio corpo”. Quello che siamo nell’intimo, traspare anche nel nostro corpo: se siamo oziosi e indolenti traspare nei nostri atteggiamenti, nel modo di parlare, di muoversi, di atteggiarsi, così pure se siamo aperti, impegnati, coinvolti spiritualmente questo si vede anche nel modo di essere e di fare. Quando parliamo della Resurrezione vediamo che gli evangelisti si sono sforzati di riferirci quanto hanno visto, sentito, toccato. Noi, rileggendo ora quegli episodi, vediamo quanto accaduto in modo molto realistico, spontaneo e naturale anche se la Risurrezione è, e rimane, un fatto soprannaturale.
Questo è il problema della Chiesa e anche il nostro problema! Dobbiamo porci la domanda: – Se ognuno di noi sente il compito di andare ad annunciare il vangelo di Cristo, deve far passare l’annuncio attraverso la propria umanità, con tutto quello che è: gesti, fatti, atteggiamenti, capacità di ascoltare. Gesù non disdegna di presentarsi, andando ad intercettare il bisogno di umanità dei discepoli, a cui non bastava sapere che la tomba era vuota: avevano bisogno di fare esperienza di Lui Risorto ed Egli si mette a loro disposizione e lo fa attraverso vari percorsi: quello della Maddalena, quello di Pietro e Giovanni, e degli altri discepoli.
GV 20,19-23
“La sera di quello stesso giorno”, quello in cui Maria di Magdala aveva visto il Signore e aveva creduto, quello stesso giorno che è l’uno dei sabati, giorno nel quale nasce un nuovo e definitivo rapporto tra Dio e la sua creazione. La Resurrezione di Cristo è l’inizio, è la nascita del mondo rinnovato nel quale stiamo vivendo anche noi ora. Mondo che finirà quando si affloscerà su se stesso e scomparirà. E’ allora che il Cristo si manifesterà, sarà il giorno della parusia, quando tutto il percorso della storia sarà finito. Quando ciò sarà non lo sappiamo, il giorno e l’ora sono riservati al Padre. Questa è una grande garanzia che salva la nostra libertà, altrimenti saremo pieni di paura nell’attesa di quel giorno. Invece non sapendo il momento, siamo mantenuti liberi di vivere già ora il mistero della sua presenza, perché quello che sarà, è esattamente uguale a quello che già c’è, ma che è nascosto da un velo. Non lo vediamo faccia a faccia, ma indirettamente come in uno specchio. Quando sarà esaurita la storia, vedremo il Signore senza più veli: Lui e noi! Sarà il momento in cui quello che era iniziato con la Resurrezione di Cristo sarà arrivato a compimento. Sarà il giorno nel quale saremo una sola cosa in Cristo, davanti a Dio nella vita Trinitaria.
Spesso ci chiediamo: “Ma come è possibile che sia iniziato, l’uno dei sabati, quando oggi nel mondo ci sono cattiverie, guerre, efferatezze!” Questo è il dramma della nostra libertà, Dio ha preso sul serio la nostra libertà, non ha giocato a farci liberi, non siamo dei burattini. Dio ha messo la vita nelle nostre mani, siamo quindi responsabili delle scelte che facciamo. Queste scelte hanno anche il potere di rovesciarsi contro di noi e contro gli altri e diventare fonte di peccato, male, distruzione, quindi non dobbiamo prendercela con Dio! Lui ha preso seriamente la nostra libertà che è il dono più bello che Dio ci ha fatto. Ognuno di noi nella sua libertà può dire ad una persona: “Ti voglio bene, ti amo!”ma, certamente, possiamo anche dire: “Ti odio, ti distruggo!”
Questo è il dramma della libertà, pensiamo quindi al potere costruttivo o distruttivo della nostra libertà. Giorno dopo giorno essa deve lottare, scendere a patti con la nostra pigrizia, con la non voglia, con il proprio comodo, egoismo e quando soccombe diventa una libertà che distrugge. Quando però cerchiamo il vero, il bene, il bello allora siamo di fronte ad un umano che cresce, che fa vedere come la Risurrezione di Cristo opera meravigliosamente dentro di noi. Noi siamo sistematicamente portati ad una decadenza, facciamo fatica a stare a galla, eppure, a volte, sentiamo un brivido che ci mette in movimento. Da dove nasce? Perché? Come mai accade? E’ l’azione dello Spirito del Risorto, dello Spirito Santo che opera dentro di noi! Siamo invitati a entrare dentro la nostra umanità e capire che non è un fatto accaduto 2.000 anni fa, ma è un avvenimento che riguarda anche noi perché, nel primo dei sabati, c’è l’inizio, c’è un seme che sta germogliando nella storia e che ha raggiunto anche me!
“Mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei.”
I discepoli erano chiusi in un altro sepolcro, chiusi per paura dei Giudei, chiusi su se stessi come la Maddalena. Cos’è che li chiude in se stessi? E’ la paura! Quando siamo bloccati dalla paura, è segno che ci stiamo fidando solo di noi stessi; quando siamo atterriti è perché siamo chiusi su un’idea, su un sentimento, su un progetto andato a male. La paura ci sta segnalando un limite e a noi il limite fa paura. Perché non siamo fatti per le limitazioni, vorremmo sempre superarle, essere migliori degli altri, andare al di là, essere in campo aperto. Ciò che è chiuso ci intimorisce, anche se, abilmente, riusciamo a trasformare gli spazi chiusi in spazi di bambagia, di illusoria sicurezza ma spesso, in un baleno, viene la folata di vento che manda tutto all’aria e allora non capiamo più nulla! Dobbiamo essere spazi aperti, e non chiusi che ci intimoriscono!
I discepoli erano pieni di paura e avevano ragione! Avevano visto il maestro ridotto in quella maniera, erano scappati, non avevano capito più nulla, si sentivano denudati, non avevano più il centro del loro affetto, della loro sicurezza, erano spiazzati come una pianta tolta dal terreno! Ora avevano paura di essere presi anche loro, ma, mentre erano in questa angoscia, “venne Gesù e stette in mezzo a loro!”. La salvezza è questa! Un altro che arriva, un altro che essi avevano smarrito e perduto. I discepoli lo ritrovano e in loro scoppia la gioia! La gioia che nasce quando si ritrova qualcosa che si era perduto! La gioia di quando si rivede un amico perso di vista e subito tornano alla mente i ricordi, i vecchi legami con esso. I discepoli rivedendolo passano dalla paura alla gioia! Quando una persona ritrova il senso del proprio esistere vi è un’esplosione della vita! La vita, quando è vita, è gioiosa. Il volto triste segnala che uno non sta vivendo, che uno non ha in sé la gioia, che è bloccato nella sua fioritura.
Gesù si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi”!
Che vuol dire pace? Non è sicuramente la pace dei cimiteri! La parola pace in greco si dice “eirene” verbo che significa cucire e ricucire, la pace è il ricucire una ferita. Pensate quando due sposi si dividono e poi fanno pace: ricuciscono un rapporto. Gesù dicendo “pace a voi” dice loro che nonostante siano scappati, Egli è venuto per stare nuovamente con loro, per ricucire il rapporto, per essere di nuovo insieme. Là dove c’è unità, c’è vita, gioia, pace. La fonte dei nostri guai sono le rotture, le separazioni, le divisioni, le spaccature. Pensate a cosa succede in una famiglia quando c’è una spaccatura! Gesù si presenta come colui che vuol ricucire un rapporto, che vuol riabbracciare i suoi discepoli.
“Detto questo mostrò loro le mani e il costato”. Grande avvenimento!
Cristo non dice ai discepoli che non hanno capito nulla, ma fa fare loro i conti con le ferite della Passione! Questa è la saggezza della salvezza. Anche noi non possiamo non tener conto di quello che ci ha fatto male o del male che abbiamo fatto agli altri! Dobbiamo avere il coraggio di guardarlo con gli occhi di Cristo, di riconoscerlo perché solo allora lo potremo sopportare. Quelle piaghe, quelle ferite ci aiutano a mantenere i piedi per terra, ci aiutano a mantenere quel senso di umiltà senza il quale la vita non è vera vita! Dio ci ha dato una pelle e facciamo fatica a starci dentro, vorremmo essere diversi e invece dobbiamo imparare ad accogliere i nostri limiti.
Spesso tentiamo di saltarli via, ci vendiamo meglio di quanto valiamo, facciamo fatica a mostrarci per quello che siamo veramente! Gesù invece si presenta con le ferite che ha subito, le mostra e, nello stesso tempo, dice loro che nonostante lo abbiano tradito, ferito, Lui li ama! Questa è la salvezza! Guardare i nostri errori e accorgerci che sono amati e noi siamo qualcuno alla luce di Colui che ci dice: – Pace, io ti voglio bene, io voglio stare con te! Ecco la sapienza del cristianesimo! La bellezza della nostra religione è l’essere perdonati ed essere capaci di perdono.
Noi tutti, nella vita, abbiamo avuto a che fare con delle ferite procurate da altri o che abbiamo fatto agli altri e spesso ci siamo lasciati schiacciare da questo, invece dobbiamo sentirci perdonati e capaci di dare perdono! Gesù ci insegna questa strada, Gesù si avvicina ai discepoli, li perdona, si fida nuovamente di loro, nonostante le loro miserie, i loro tradimenti! Dice loro: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”.
Gesù si fida di nuovo di quei poveracci di discepoli e li manda nel mondo ad annunciare un paradosso, un messaggio che il mondo non capisce. Anche noi siamo mandati nel mondo ad annunciare un messaggio che il mondo non capisce. Gesù sapeva questo, ma li manda ugualmente perché hanno fatto l’esperienza dell’amore e non perché sanno parlare o sono bravi.
Anche a noi Cristo chiede di andare nel mondo a testimoniare, non perché siamo bravi o sappiamo parlare ma perché abbiamo fatto esperienza del Suo Amore! Il regno di Dio avanza perché c’è un’umanità accolta, amata; il mondo non lo sa che tutti sono amati, quindi ci è chiesto di testimoniare l’amore di Dio! I discepoli avevano fatto esperienza dell’amore e dell’incontro con Lui, e questo li rendeva abili a raccontarlo!
Dopo aver visto le mani e il costato i discepoli gioirono nel vedere il Signore!
Ritorna la gioia, la serenità. I discepoli erano come spugna che si lasciava impregnare della presenza del Signore, presenza che diventava gioia, sicurezza, serenità perché avevano in mano il destino della vita! Noi cristiani siamo spesso goffi quando dobbiamo fissare le nostre convinzioni nella consapevolezza che Dio si è dato a noi come destinazione ultima, come spiegazione ultima del mondo. Se la nostra fede partisse da lì, saremmo sempre profondamente sereni di fronte a questo mondo! Per rinforzare i discepoli nel loro compito, Gesù mette dentro di loro il Suo Spirito che è la sua identità, comunica il suo modo di essere.
“Detto questo alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo!”
Alitò su di loro, in greco significa soffiò e questo verbo ci fa venire in mente quando Dio trasse Adamo dal fango, soffiò in lui la vita. Lo Spirito è la vita e si è vivi quando si respira. Gesù dà la vita, non sono più i poveri pescatori, ma sono parte di Lui! Non sono più loro che parlano, ma parla lo Spirito Santo che è in loro.
E’ questo realismo della fede che noi abbiamo perduto, spiritualizzato, intellettualizzato per cui siamo diventati estranei alla fede e facciamo fatica a viverla. Eppure lo Spirito Santo che ci è stato dato nel battesimo ci fa creature nuove e dentro di noi c’è il gemito dello Spirito che ci parla, ci accompagna, ci suggerisce. Diventa la nostra forza con la quale Gesù dà il mandato di rimettere il peccato, Gesù crea le condizioni affinché l’uomo superi tutte le divisioni. Il peccato è divisione, è non centrare il bersaglio. Peccato è quando non andiamo al centro del desiderio, sfuggiamo a ciò per cui siamo fatti, desideriamo la felicità e andiamo dietro a ciò che non ci fa veramente felici.
Gv 20, 24-28
Tommaso, uno dei dodici, chiamato Didimo che significa gemello, è uno di noi, il nostro gemello, anche noi non c’eravamo, ma altri ci hanno detto che è risorto, che l’hanno visto! “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel posto dei chiodi e la mano nel suo fianco, io non credo”. Tommaso aveva ragione, vuole vedere, toccare sperimentare, vuole avere a che fare con le piaghe ed è giusto che sia così. Anche noi abbiamo bisogno di toccare, non è un caso che Cristo nell’Eucarestia abbia voluto lasciarsi non solo toccare, ma addirittura mangiare che un modo ancora più intimo di venire a contatto.
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso quando venne Gesù che dopo aver detto “Pace a voi”, chiama Tommaso. Chissà con quale tenerezza gli ha detto di mettere il dito nelle sue ferite e con quale tremore Tommaso ha toccato il Signore! Dobbiamo immaginare la bellezza di questo momento!
Poi Tommaso esclama: “Mio signore e mio Dio!” non perché lo possiede, ma perché è il Signore di quello che lui è! Gesù poi lo rimprovera dolcemente: “Tu hai creduto perché hai veduto e io ti dico beati, felici quelli che pur non avendo visto, hanno creduto”.
Gesù si riferisce a Pietro e a Giovanni che pur non avendo visto il Signore, ma solo il sepolcro vuoto e i teli stesi hanno creduto. Non è un’esaltazione del non vedere, ma un’esaltazione del tempo futuro che potremo vedere solo attraverso i segni. Saranno beati quelli che sapranno cogliere attraverso i segni la presenza del Risorto. Noi crediamo attraverso i segni dei testimoni, i segni della vita e dobbiamo riuscire a vedere che la realtà è tutta un rimando al Risorto.
Sapete qual è il nostro peccato? Il peccato è che Lui, il Risorto, non è mai al centro della nostra attenzione, della nostra vita, non è mai il principio delle nostre azioni. Ogni tanto pensiamo a Lui e lo appiccichiamo come fosse un francobollo! Il Risorto non è un ornamento ma il principio che dà senso, significato, è il DNA che genera la vita, è il primo e l’ultimo, è colui che dà senso anche ai nostri peccati! Se non avessimo peccato non potremmo gustare la misericordia di Dio!
Il confessore di S. Teresina fece un grande errore, quando le disse che non aveva mai fatto un peccato mortale, perché le impedì di capire cosa voleva dire il cuore stesso Dio che è misericordia, ma la santa ha potuto sperimentare che Dio è misericordia perché si è immedesimata nel corpo mistico e ha preso su di sé i peccati di tutti.
Le nostre ferite sono parte integrante della nostra umanità e sono importanti perché ci fanno capire la tenerezza della misericordia di Dio, ci aprono il cuore stesso di Dio che è misericordia.
Tommaso sperimenta proprio questo, sperimenta il contatto con il Signore. Anche per noi c’è spazio nel cuore di Cristo, c’è spazio per tutti anche per il peggiore dei peccatori!
P. Antonello Erminio