Gesu’ Risorto con i discepoli

mare di TiberiadeLa resurrezione di Gesù ci immette in un mondo nuovo e costruisce dentro di noi una consapevolezza diversa rispetto a quella nella quale noi normalmente viviamo la vita di tutti i giorni. La realtà intorno ci assorbe in modo tale da attirare lo sguardo unicamente verso le cose, e allora perdiamo la nostra identità più profonda che è il destino ultimo della vita e cioè stare con il Signore Gesù. Alla nostra morte, non faremo altro che incontrarci con quel volto nascosto, mai visto del Signore a cui abbiamo dato il nostro affetto. E se avremo vissuto in lui e per lui, diventeremo capaci di riconoscerlo, e di dire: – Ah, sei proprio tu quello della resurrezione! Il mistero delle Risurrezione è funzionale a rigenerare il nostro modo di vedere, di sentire, di fare esperienza del Signore. Abbiamo visto come nel racconto di Giovanni c’è questa preoccupazione: dimostrare che il Signore è una realtà che si fa vedere, ci fa sperimentare la consapevolezza del nostro limite, del nostro peccato. Toccando le sue piaghe, tocchiamo le nostre. Ma cosa vuol dire prendere consapevolezza che il Signore è risorto, che ha superato la barriera dello spazio e del tempo,? Vuol dire precisamente che i 2000 anni che ci separano dalla sua presenza sulla terra sono niente: quella barriera è superata. Il tempo nel Signore Gesù non esiste più. Esiste solo per noi, Lui è il presente, Egli ha un respiro universale che abbraccia tutti.

Di qui nasce una nuova coscienza di sé, un modo nuovo di percepirsi, non più da soli dentro alla battaglia quotidiana, ma all’interno del rapporto con Lui. E quando diciamo: – Il Signore sia con voi! – non è un modo di dire, ma una realtà cristiana che dice: – Davvero il Signore è con te e ti accompagna.  Questo è il cammino della fede che siamo invitati a riprendere continuamente, perché noi tendiamo a dimenticarlo. C’é un proverbio che dice: – Lontano dagli occhi, lontano dal cuore! E’ così anche nelle questioni importanti della fede. Ci troviamo a riascoltare la parola di Dio proprio per ridirci il senso della vita, per non dimenticare. Gesù ci ha raccomandato di vivere nella memoria di Lui e cioè, a riportarlo all’interno della nostra umanità, della nostra coscienza. Che il Signore possa farci fremere come è avvenuto per i discepoli!

San Paolo dice: “Questa vita che vivo nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me! Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me!” E’ il destino a cui siamo chiamati: essere una sola cosa con Cristo. Percepire invece che la mia umanità diventa un po’ incartapecorita perché si va ad appoggiare su cose che non tengono è la mia tristezza. Chiediamo che, per grazia, possiamo percepire che Cristo è dentro alla nostra povera umanità, alla nostra vita.

Anche per i discepoli è stato faticoso assumere la consapevolezza che, quel Gesù che aveva mangiato con loro, era vissuto con loro, gli aveva soggiogati dal punto di vista umano e del quale avevano capito solo l’1%, adesso era ancora con loro. Alla luce della Risurrezione hanno dovuto fare il cammino di rilettura dei tre anni di esperienza vissuti con lui. La Risurrezione è stato l’evento che ha separato il mondo dal prima al dopo. Il Tempio che si spacca da cima a fondo rappresenta la nuova realtà e cioè che Dio è con noi, vive con noi! Quanto siamo smarriti di fronte a questa realtà!

Abbiamo la tendenza a fare delle cose buone perché dopo troviamo soddisfacimento e possiamo presentarci a Dio dicendo: – Vedi, come sono bravo! E’ la tendenza all’auto salvezza, al moralismo, al sentirci a posto di fronte a Dio e di fronte agli altri, perché gli altri sono il riflesso di ciò che noi siamo, i nostri primi giudici. Tendiamo a costituirci in base al giudizio che gli altri possono dare. Questo non è sbagliato, però non è il punto fondamentale: se ci fermiamo qui siamo dei farisei. Il punto fondamentale è la coscienza di sé: -Chi sono io? Qual è l’affetto che mi costituisce, mi determina? San Tommaso diceva: -La consapevolezza dipende dall’affetto che maggiormente ci sostiene. L’affetto è l’attaccamento che tiene insieme tutti i pezzi della vita! Il cristiano è chiamato a dire qual è l’affetto che maggiormente lo sostiene, perché la luce che lo determina illuminerà tutto il resto della vita.

Ecco, la Risurrezione di Cristo genera dentro di noi questa luce nuova. E’ bellissimo vedere il mattino presto la luce dell’alba che dà alle cose una brillantezza particolare. La luce della risurrezione è come questa luce che arriva quando ancora non c’è il caldo che solleva l’umidità e quindi tutto può apparire bello, pulito, chiaro. La Risurrezione di Cristo è l’albore nel quale nasce l’uomo nuovo, vero, autentico. Noi abbiamo un destino eterno, di essere legati in un affetto irrevocabile con colui che è il nostro creatore e padre. In questo rapporto originale raccogliamo tutti gli affetti della vita, nessuno va perduto. Il Paradiso è la festa degli effetti, tutto sarà recuperato. Ecco perché il credente non è un rinunciatario ma un amante della vita. Noi pensiamo che vivendo i comandamenti, in particolare quelli dell’amore, siamo gente che rinuncia a qualcosa. Tutto è bello e grande se guardato nella luce del Signore risorto. E’ su questo punto che dobbiamo sfidare il mondo. Io faccio ciò che merita ed è valido. Le cose che non faccio sono quelle che alla fine non mi accontentano, non danno ragione al desiderio che c’è dentro di me. E’ una fatica sotto diversi aspetti. Abbiamo bisogno dell’azione dello Spirito Santo perché illumini non soltanto la mente, ma soprattutto la volontà, ci trascini come fa il papà con il bambino che non vuole camminare. Lasciamoci trascinare dal Signore! Così Gesù ha fatto con i suoi discepoli, secondo il vangelo che stiamo leggendo.

 Gv 21,1-14  

1 Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: 2si trovavanopesca_miracolosa insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: “Io vado a pescare”. Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”. Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?”. Gli risposero: “No”. Allora egli disse loro: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”. La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!”. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. 10 Disse loro Gesù: “Portate un po’ del pesce che avete preso ora”. 11 Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. 12 Gesù disse loro: “Venite a mangiare”. E nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”, perché sapevano bene che era il Signore. 13 Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. 14 Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.

Ancora una volta siamo di fronte a un brano che non dobbiamo leggere in chiave cronologica o con la mentalità dei giornalisti. La domanda non è come sono andati i fatti, ma cosa ci vogliono dire. Il vangelo di Giovanni incomincia con la chiamata dei discepoli. E qui, Gesù, dopo la Risurrezione, chiama di nuovo i discepoli. Il brano ha dentro di sé un aiuto a comprendere tutta la fatica del riconoscimento. Non è così immediato dire è Risorto ed è presente nella mia vita. Cerchiamo di non scandalizzarci quando ci accorgiamo che la nostra fede si è smarrita: fa parte della vita. Se ci smarriamo di fronte alla vita materiale alla quale riserviamo le nostre maggiori energie, immaginate se non è logico che ci smarriamo anche di fronte alla fede! Come nella vita abbiamo bisogno di riprenderci e di ridare senso ai gesti che facciamo, così nella vita di fede. La fede non è illuminazione ricevuta una volta per tutte, ma un cammino che implica la fatica del dare il proprio assenso a Cristo. Ma questa fatica è sempre premiata, perché man mano ci si affida al Signore, Lui diventa sempre più luminoso dentro le nostre ferite.

gesù-lago-di-tiberiade-Nel percorrere la strada della fede occorre avere questa pazienza. Però, un conto è camminare guardandosi i piedi, un conto è camminare guardando la meta. Se smarriamo il punto di arrivo e non vediamo più l’orizzonte, la fatica del passo dopo passo diventa pesante. Se invece allarghiamo lo sguardo, il passo dopo passo, diventa carico della presenza del Signore e si arriva alla meta in modo più leggero. La domanda di Gesù è la stessa: – Chi cerchi? Qual è l’orizzonte? Questo è il punto decisivo, perché tutto dipende da ciò che cerchiamo. Senza un orizzonte è come se uno diventasse immediatamente pigro, incapace di muoversi. Ai ragazzi che mi sfidano sulla fede, io rispondo: – Anche tu ce l’hai un Dio, ma dimmi, ti rende felice? Se mi rispondono sì, io dico di continuare su quella strada perché intanto (penso dentro di me), prima o poi arriverà il momento in cui gli darà nausea. Se amiamo Cristo non è per spirito di devozione o per paura del giudizio universale, ma perché vogliamo essere fedeli alla dinamica che Dio ha messo nel cuore, e cioè desiderare di essere felici. E la felicità più profonda ci viene dell’incontro con Cristo. Ripeto, non siamo dei rinunciatari della vita, ma persone che vogliono essere fino in fondo veramente felici e vivere nel proprio mondo un rapporto speciale con Cristo.

Riprendiamo il testo

E’ evidente che la preoccupazione dell’evangelista, nel costituire la cornice dell’apparizione di Gesù sul lago di Tibe­riade, è di voler raggiungere il numero simbolico di sette discepoli come testimoni. Dopo aver citato i primi cinque con il loro nome: Si­mon Pietro, Tom­maso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo, aggiunge altri due discepoli. Il numero sette è il numero della pienezza, è il simbolo per eccellenza della Chiesa. Ed è come se subito voglia dire la sua intenzione e cioè, presentare la Risurrezione di Cristo all’interno della Comunità che si è formata. Nel formare questa comunità sono stati presi i personaggi più in vista: Pietro che il Capo, poi i due estremi: Tom­maso che fa fatica a credere e Natanaele di Cana che, alla prima chiamata ha uno sguardo pieno su Gesù ed è pronto a riconoscerlo quale “Figlio di Dio e re di Israele” Gv 1,49.

E, dentro a questi due discepoli che stanno agli antipodi, ci siamo tutti noi. Infine ci sono gli altri due per completare il numero sette che rappresenta tutta la Chiesa.

Il quadro si apre con l’apostolo Pietro che prende una decisione: quella di andare a pescare. Un certo numero di particolari fanno balzare in primo piano il parallelismo con il primo incontro della chiamata raccontato da Lc 5,1-11. Stessa situazione: una pesca infruttuosa che si trasforma in pesca abbondante. Quasi una seconda chiamata, dopo la svolta della risurrezione di Gesù e l’inizio della missione della Chiesa. Il tentativo di Pietro, seguito dagli altri – Veniamo anche noi con te – di ritornare al mestiere che avevano fatto prima di incontrare Gesù, rivela la difficoltà dei discepoli nell’accettare il fatto della risurrezione. L’evento è accecante per la ragione: di qui l’incredulità che deve essere vinta.

Come arrivano alla fede i discepoli, riassunti nella figura di Pietro?

L’iniziativa pragmatica di Pietro di riprendersi la vita, (se la conclusione della vita di Gesù è stata la croce scandalosa, se nulla è accaduto circa la gloria promessa, immaginata, allora non resta che mettere i piedi per terra e ritornare sui propri passi), ha un esito fallimentare – in quella notte non presero nulla: la notte dell’incredulità. Fuori della fede, del rapporto con Cristo c’è il fallimento dell’uomo. “Si tu te aedificas, ruinam aedificas” (Ag. Sermones, 169,11): se costruisci te stesso con le tue forze, costruirai un rudere; sei destinato a fallire. L’uomo può anche costruire senza Cristo, ma la sua costruzione è sempre incompiuta perché tarlata dall’insuperabile destinazione alla fine e alla decadenza. Al progetto di Pietro è contrapposta l’iniziativa di Gesù. Questa iniziativa avviene nella semi-oscurità del mattino “all’alba”: contrapposizione con la notte dei discepoli: l’annotazione non è semplicemente temporale, è allusiva all’aurora del tempo nuovo che è dato dalla risurrezione del Signore ed è caratterizzato dalla sua Presenza nel quotidiano affaticarsi dei suoi discepoli. I discepoli non si erano accorti che era Gesù.

Accorgersi nella fede della Presenza di Cristo nella propria vita segue il lento processo della libertà che impara alasciate-le-reti concedersi al Signore. Inizialmente, la grazia della fede quasi non la si riconosce. Poi nello sviluppo del tempo, in seguito ai fatti che aprono gli occhi, si riesce a dire: è proprio il Signore che mi ha guidato. E’ la dinamica verso la fede descritta in modo caratteristico da Giovanni: si parte sempre dall’oscurità e ci si introduce ad essa un poco alla volta. L’uomo è quell’essere che dal buio dell’incredulità e del peccato deve venire alla luce, che è Cristo. L’iniziativa di Gesù è segnata dalla delicatezza della carità e dell’affetto. “Ragazzi”(paidia), li chiama, diminutivo affettivo simile al teknia “figlioli” dell’ultima cena (Gv 13 ,33). E si manifesta come attenzione di carità verso il loro bisogno: “Non avete nulla da mangiare?”. E’ lo stesso atteggiamento di servizio e di carità che il Signore aveva attuato nell’ultima cena e aveva raccomandato ai suoi. Il “non” aver nulla da mangiare è la condizione dell’uomo lontano dalla fede o con la fede incerta. L’atteggiamento di servizio e amorevolezza di Gesù non è solo preoccupazione emotiva, ma si fa azione: viene in evidenza nel miracolo della pesca straripante.

Ancora una volta, il miracolo di una pesca abbondante non va ridotto a semplice evento straordinario che stupisce la razionalità per l’impossibilità a spiegarlo, ma più profondamente va letto nell’ordine dei segni. La pesca miracolosa è funzionale a far scattare nei discepoli un passaggio: dall’incapacità a riconoscere il Signore alla consapevolezza della sua presenza di risorto nella Chiesa. Il miracolo è in funzione della fede: ovvero al far sbocciare l’evidenza di verità che è il Risorto nella vita della comunità cristiana. Come nel racconto delle apparizioni della Maddalena, anche qui sono proposti diversi modi di riconoscimento di Gesù nella fede: quello di Giovanni, quello di Pietro e quello degli altri discepoli .

“Allora il discepolo che Gesù amava disse a Pietro: è il Signore”: la capacità di vedere la profonda identità del risorto è propria di colui che ama. E questo riconoscimento carismatico e intuitivo di Giovanni è riversato in Pietro, colui che rappresenta il fondamento dell’istituzione. Carisma ed istituzione si devono integrare. Pietro, a sua volta, non è ricettore passivo della comunicazione di Giovanni: mostra, a suo modo, l’amore per il Signore. Appena sente che è il Signore, si butta in acqua per raggiungerlo prima degli altri: “Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci”. Il suo comportamento diventa significativo: essi si preoccupano della barca, lui ha altro a cui pensare. La sua fede diventa bisogno di incontrare il suo Signore. Nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”, perché sapevano bene che era il Signore. Gesù, alla titubanza dei discepoli di interrogarlo sulla sua identità, “si avvicinò, prese il pane e lo diede loro”. Tre verbi che descrivono l’azione di Gesù: si avvicina, prende il pane, lo dà loro. Non ci sono parole di Gesù. Agisce solo. E’ l’atteggiamento di offrire ai discepoli da mangiare, che parla e fa scattare il riconoscimento, così come avviene con discepoli di Emmaus che lo riconoscono allo spezzare del pane.Venite e mangiate

La fede è un riconoscimento relazionale, è certezza di una Presenza, misteriosa e reale, che costituisce in comunione i discepoli. La Chiesa nasce sul fondamento dell’Eucaristia. Il pasto pasquale del Signore con i discepoli continua la comunione del Gesù terreno con i suoi, mantenendo la promessa di Gv 14,18: “Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete”.                                                                                                                                                                                                                                                                                    P. Antonello Erminio

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