Egli è qui, in eterno è qui, come il primo giorno.

Domenica 7 dicembre ha avuto inizio il ciclo degli incontri con la Parola 2025-2026 guidato da padre Erminio Antonello e aperto alla partecipazione di chiunque lo desideri. Il tema generale è: L’incontro sempre nuovo con Gesù.

Ascolta l’audio della prima parte della catechesi:

Ascolta l’audio della seconda parte della catechesi:

Il desiderio, il grido e l’abbraccio

Il contatto con Gesù non è un incontro avvenuto nel passato di cui a mala pena, ogni tanto, ci si ricorda, ma è l’incontro con l’eternamene Presente nella storia universale e personale di ciascuno.“L’al di là è quell’Eterno installato nel cuore di tutto lo sviluppo temporale che egli anima e orienta. E’ il vero Presente, senz  il quale il presente non è che polvere inafferrabile. Se gli uomini di oggi sono così tragicamente assenti gli uni agli atri è, prima di tutto, perché sono assenti a se stessi, avendo disertato quell’Eterno che solo li radica nell’essere e permette di comunicare tra loro” (H. De Lubac, Cattolicismo, VII, p. 276)

  1. Gesù Cristo non è il dogma che ci tiene in chiesa, ma la relazione che ci tiene in vita, impedendoci di uscire di senno. Questo è il nucleo pressante della nostra fede cristiana, intorno al quale siamo chiamati a costruire la nostra vita. “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20); “Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre!” (Eb 13,8); “Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene” (Ap 1,8). Gesù è dunque un Vivente da incontrare. Non ci ha lasciato un insegnamento, né una dottrina morale, reperibili senza la sua presenza. Egli è l’eternamente Presente alla nostra umanità: e questo fa la differenza rispetto ad ogni forma religiosa. Dalla sua Presenza scaturisce anche un comportamento morale e un insegnamento: ma tutto ciò è gerarchicamente al secondo posto ed acquista valore e senso solo alla luce della perenne Presenza del Signore che ci parla e sta accanto a noi nella vita. Pertanto, alla sorgente dell’essere cristiano non c’è prima di tutto uno sforzo per realizzare ciò che è giusto, né un grande ideale per cui impegnarsi, bensì l’incontro con una Persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva, cioè la introduce al senso per cui merita lavorare, impegnarsi, costruire e vivere. L’agire, il fare, il pensare sono una conseguenza della coscienza di questa Presenza.
  1. Egli è il Presente, perché è il Risorto che, asceso al grembo del Padre nella sua umanità, continua ad accompagnare la storia degli uomini chiedendo loro l’elemosina della loro libertà, con la quale lo vogliano riconoscere: “Dio poteva obbligare gli uomini a obbedire come fanno le stelle. Egli, invece, si è fatto uomo e ha deposto la sua onnipotenza all’uscio delle case degli uomini. L’Onnipotente che regge il cosmo se ne va come un mendicante tra la folla delle anime umane chiedendo come elemosina di spartire le ricchezze misteriose del suo essere”. (Sigrid UNDSET, Il roveto ardente) Di Gesù Cristo, essendo una Presenza sempre attuale, occorre farne esperienza e viverlo là dove noi siamo presenti a noi stessi, come una persona amata che non sfugge dal pensiero, ma quanto più è presente tanto maggiormente orienta gesti e parole, sentimenti e attività, rapporti e scambi.

Poiché ciò che decide nella vita è l’incontro con una persona che appaghi la nostra segreta attesa di un rapporto che colmi il desiderio di vita. Come quando nell’adolescenza tutta la biologia è una spinta a trovare un’anima gemella con cui condividere la propria voglia di vivere: e, finché non la incontra, la vita è opaca. Quando la si trova tutto si illumina e acquista senso, perché – come dice Romano Guardini – “nell’esperienza di un grande amore tutto il mondo si raccoglie nel rapporto Io-Tu, e tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito”. Quello che muove la vita di fede è un “rapporto affettivo” con Colui che si riconosce come il determinante della propria storia personale. Determinante perché è Uno che capisce, che ha in sé l’energia che dà gusto. Non basta però saperlo astrattamente. Bisogna farne esperienza. E fare esperienza di qualcosa “significa che quel qualcosa al quale tendiamo, mentre siamo in cammino per raggiungerlo, proprio esso ci sopraggiunge, ci colpisce, ci pretende in quanto ci trasforma secondo se stesso” (M. Heiddeger, In cammino verso il linguaggio, Milano 1979, p. 141).

Gesù continua a venirci incontro, restituendoci a noi stessi nella verità

Gli incontri di Gesù con la gente del suo tempo avevano un’energia particolare: comunicavano il coraggio di esistere nella singolarità della loro umanità. Essi si sentivano restituiti a se stessi. A coloro che lo incontravano, Gesù trasmetteva la propria identità, la propria dynamis, la propria energia di vita, il suo Spirito, generando in loro vita nuova come per la samaritana, il cieco nato, la donna sorpresa in flagrante adulterio, l’emorroissa. E così via. La donava gratuitamente a una moltitudine di uomini e donne, feriti dalla vita, lasciandoli andare per la propria strada, rimandandoli senza legarli a sé. Era questo accesso miracoloso di ognuno alla propria personale unicità che dava loro il “coraggio di esistere”. I discepoli hanno respirato questo nuovo tipo di vita e, nella loro prima attività di piccolo gruppo riunito nella fede in Gesù, lo hanno tradotto nell’esperienza di comunione fraterna. L’incontro con Gesù deve perciò battere nell’intimità della coscienza. La grazia è di esserne rapiti. “Nel cristiano ciò che decide tutto, assolutamente tutto, pensiero, azione, essere, è se la realtà di Dio viene sentita. Se egli sta nell’esistenza come il Reale, come in ultima istanza l’unico Reale. Tutto il resto ne viene determinato: quindi è vivo o solamente pensato, anzi parlato” (R. Guardini, Diario, Morcelliana, 1983, p.222). Poiché, L’essenza del cristianesimo, Morcelliana, 1980, 11-13.

Come aprirsi all’incontro con Gesù? Guardare e desiderare

  1. Prima di tutto bisogna guardare a se stessi, al proprio limite e alle proprie debolezze. Chi ignora la propria condizione di fragilità e contingenza si esclude dal poter incontrare Colui che è salvatore. E’ già troppo pieno di sé. Nel Vangelo un tipo così è raffigurato dall’idropico: “Un sabato si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Ed ecco, davanti a lui vi era un uomo malato di idropisìa. Rivolgendosi ai dottori della Legge e ai farisei, Gesù disse: È lecito o no guarire di sabato? Ma essi tacquero. Egli lo prese per mano, lo guarì e lo congedò”. L’idropisia spirituale è la chiusura su se stessi: tutto è orientato a sé, ci si gonfia e ci si pensa autosufficienti. Non si ha bisogno di nulla, perché ci si pensa già pieno. Uno così è divorato da una sete insaziabile di possesso, che “gonfia” l’anima e il cuore. È una condizione di accumulo di cose, come se le cose potessero colmare un vuoto interiore, ma al contrario aumenta solo la sete e deforma spiritualmente.
  2. Solo chi ha fatto i conti con la propria umanità vedendone l’inconsistenza comincia a sentire il bisogno di aprirsi e di chiedere aiuto. Sentire un bisogno equivale a desiderare. Ora il desiderio del cuore umano è una forza motrice che sostiene l’esistenza: è una energia trascendente che anticipa ogni pensiero. Questa energia attraversa l’umano. Non sono io che ho deciso il mio desiderio, ma è il desiderio che decide di me: sgorga continuamente dal nulla e dal vuoto, si impadronisce, mi rapisce, mi inquieta, mi ustiona, mi potenzia. L’uomo è un essere desiderante e il mendicante è il protagonista della storia, poiché il cuore è sempre attraversato dal sentimento di una mancanza. Per quanto cerchi di colmarlo, sempre si riapre una ferita, un vuoto. E’ da questa fessura che s’accende il desiderio. Ma il desiderio va al di là di ogni oggetto a cui si possa affidare la propria attesa. Il desiderio è proteso alla pienezza dell’infinito. Se ci si illude di saziarlo con qualcosa, lo si uccide. Tenere vivo il desiderio è il modo autentico di vivere: lasciarsi prendere da esso e capire che è un’eco del divino in noi. Le nostre insoddisfazioni non sono materiale di scarto, sono piuttosto materiale vivo che rimandano a quell’infinito a cui il cuore anela.
  1. Il maggiore danno che la società dell’opulenza ha generato è la cancellazione del senso della mancanza dal cuore umano. La sazietà chiude ogni varco di novità e blocca la vita. Questo è anche quello che accade nella vita cristiana: vi è un desiderio spento dall’abitudine al divino e dalle forme religiose, mentre occorrerebbe ravvivare tutto con il soffio dello Spirito. Come la brace che si spegne, occorre alitarvi sopra per riaccenderla.

Una pagina evangelica di desiderio attivo e silenzioso Mc 5, 25

Mc 5, 25-34: “una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni 26e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, 27 udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. 28 Diceva infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata”. 29 E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. 30 E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: “Chi ha toccato le mie vesti?”. 31 I suoi discepoli gli dissero: “Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”. 32 Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. 33 E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. 34 Ed egli le disse: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. Questa donna ha osato l’inosabile. In quelle condizioni di impurità legale ha toccato un uomo e per giunta un uomo religioso; ha puntato sulla grazia di una guarigione che si sottraeva alle procedure legali previste e sfidato la regola della sua femminilità che le raccomandava nascondimento e accettazione della sua infermità. Dalla sua infermità desidera toccare anche solo il lembo del mantello di quell’Uomo che dà vita, sfidando tutti i blocchi legali che lo vietano. Gesù chiama la donna davanti a tutti per confermare la qualità della fede gradita a Dio che essa ha espresso, e cioè respinge l’idea di una complicità di Dio con il male che l’uomo subisce e, nello stesso tempo, fa vedere il volto autentico di Dio come Colui che si prende cura degli afflitti. Questo affidarsi della donna in stato di impurità legale, sociale e religiosa, è raccomandato da Gesù come vertice della fede, poiché essa pensa “fiduciosamente” il rapporto con Dio.

Il grido e l’abbraccio Lc 18-35 Eccoci davanti a due brani, come due ante di un medesimo portale, che apre la porta per capire chi è l’uomo e chi è il Dio rivelato da Gesù. L’uomo è nella sua struttura intima un grido. E Dio è il Creatore che si accasa in un luogo che i benpensanti religiosi ritengono che sia indegno di Dio.

Lc 18,35 -42 Mentre si avvicinava a Gerico, un cieco era seduto lungo la strada a mendicare. 36Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. 37 Gli annunciarono: “Passa Gesù, il Nazareno!”. 38 Allora gridò dicendo: “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!”. 39Quelli che camminavano avanti lo rimproveravano perché tacesse; ma egli gridava ancora più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”. 40 Gesù allora si fermò e ordinò che lo conducessero da lui. Quando fu vicino, gli domandò: 41 “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Egli rispose: “Signore, che io veda di nuovo!”. 42 E Gesù gli disse: “Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato”. 43 Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando Dio. E tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio. Il desiderio, nell’apice del suo desiderare, diventa acuto e si trasforma in un grido. E’ la preghiera di domanda che è praticamente l’unica, insieme a quella di ringraziamento, che Gesù raccomanda. In realtà nella tradizione cristiana è piuttosto declassata rispetto alla preghiera di lode. La preghiera come domanda va riabilita e riconosciuta come il modo autentico per stare di fronte a Dio. Il grido è costitutivo dell’umano: è la prima voce con cui l’essere saluta la vita. Ed esprime la dimensione di verità dell’umanità di essere fragile e bisognosa. Di fronte a questo grido però vi è una censura sociale e un interdetto culturale, quasi una vergogna, che innalzano barriera difficile da superare: “Non si deve avere bisogno! Bisogna bastare a se stessi! Si deve diventare autosufficienti e autonomi nella vita. “Guarda: gli alberi esistono; le case in cui abitiamo si ergono salde. Solo che noi passiamo accanto a tutto questo, come un soffio d’aria. E tutto congiura a tacere di noi – scriveva Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi in parte come vergogna, o forse come speranza indicibile. “Si ha vergogna di essere un “soffio d’aria”, fragili e effimeri, mentre invece proprio questo è “una speranza indicibile”. Perché? Di fronte alla debolezza umana Dio si commuove (Il samaritano-Gesù: “visto il ferito abbandonato, si commosse: ἰδὼν ἐσπλαγχνίσθη – provò un dolore acuto e viscerale). Questa è la speranza che non può essere detta tanto è paradossale e incredibile: Dio si prende cura di me. E’ l’inattesa speranza e la gioia di poter essere amati, proprio perché fragili e mortali. Amati non perché meritevoli, ma amati per la gratuità somma che Dio è un Padre che ci vuole alla vita. La preghiera di domanda è l’officina del nostro desiderio, dove affiniamo e discipliniamo le nostre attese e i nostri bisogni, li ravviviamo, li raccogliamo in unità in quell’unico desiderio che li raccoglie tutti ed è necessario: il desiderio di Cristo (Cristo solo mi è necessario! Paolo VI). “Noi nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare” ma quel grido della nostra domanda è assunto dallo Spirito di Cristo, “il quale, Lui stesso, grida in noi con gemiti inesprimibili” (Rom 8, 26). E in che cosa consistono questi gemiti inesprimibili? Noi abbiamo ricevuto uno Spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: abbà, papà!” (Rom 8, 15); e “lo Spirito attesta in noi che siamo figli di Dio – τέκνα θεοῦ generati/procreati dalle viscere di Dio (Rom 8, 26).

Lc 19, 1- 10 Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, 2 quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, 3 cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. 4 Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro, perché doveva passare di là. 5 Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. 6 Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. 7 Vedendo ciò, tutti mormoravano: “È entrato in casa di un peccatore! Παρὰ ἁμαρτωλῷ ἀνδρὶ εἰσῆλθεν καταλῦσαι.“. 8 Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”. 9 Gesù gli rispose: “Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. 10 Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”.

Zaccheo è un uomo mosso dal desiderio: (“cercava di vedere Gesù”). E il desiderio lo porta a compiere un gesto inusuale e paradossale per un uomo del suo stato sociale. Rompe le barriere del consueto e si lascia trasportare dal desiderio. Il desiderio lo lavora di dentro e lo predispone a un incontro inaspettato. Gesù si accorge di lui, il disprezzato e l’uomo da evitare. Nell’incontro con Gesù è trasformato in “figlio” di Abramo, cioè, generato dalla fede.

L’impressionante è Gesù che si consegna a Zaccheo. L’incontro con Gesù è un movimento inverso rispetto a quello dell’uomo religioso che va verso Dio; qui è Dio che si china verso l’uomo: “E’ andato ad alloggiare da un peccatore!”. E qui è il massimo della rivelazione di Gesù: Dio si immerge nella debolezza dell’uomo, e restituisce l’uomo alla sua dignità di essere figlio amato. E’ da qui che nasce la moralità nuova.

La nuova religiosità evangelica si basa dunque su questi tre verbi: desiderare, gridare, lasciarsi abbracciare. Senza questi passaggi, la nostra fede non vive, perché non scaturisce da un movimento dell’anima. La fede resta formale, ma inerte: è priva di quel “differenziale affettivo” che nasce quando ci si sente amati e perdonati, abbracciati come pregava Jacques Maritain:

“Con infinita fiducia mi apro al tuo abbraccio, o Dio, non perché il mio cuore è puro, ma perché il tuo sguardo è buono”.