Credo in Gesù unico figlio di Dio

Domenica 23 febbraio P. Antonello ha tenuto la catechesi: Credo in Geù unico figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce.

A seguire l’audio e il testo della meditazione.

prima parte

seconda parte

Le parole del Credo riassumono la nostra fede. Dicono chi è Dio, il quale non è solo Padre, ma Dio è anche Fi­glio, Dio è anche Spirito. Come è stato possibile conoscere questo misterioso grembo di Dio? Dice san Giovan­ni: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”. E il Figlio per potersi far capire dall’uomo doveva parlare un linguaggio d’uomo. E così il Figlio si è avventurato nella storia degli uomini, as­sumendo un volto umano. Per capire le parole della nostra fede, dob­biamo anche noi ripercorrere il cammino che hanno fatto i primi che lo hanno incontrato.

Una storia inattesa e un’esperienza coinvolgente  Il primo incontro

“Giovanni Battista fissando lo sguardo su Gesù che passava disse: ‘Ecco l’Agnello di Dio!’. E i due discepoli, sen­tendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: ‘Che cercate?’. Gli risposero: ‘Rabbi, dove abiti?’. Disse lo­ro: ‘Venite e vedrete’. Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pome­riggio” (Giovanni 1, 35-51).

“I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì su una barca che era di Simone e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedutosi si mi­se ad ammaestrare le folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare disse a Simone: ‘Prendi il largo e calate le reti per la pe­sca’. Si­mone rispose: ‘Maestro abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo pre­so nulla; ma sulla tua parola getterò le reti’. E avendo­lo fatto, prese­ro una quantità enorme di pesci e le reti si rompeva­no. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche al punto che quasi affon­davano. Al vedere queste cose, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: ‘Signore, allontanati da me che sono un peccato­re’. Grande stupore, infatti, aveva preso lui e tutti quelli che erano con lui per la pesca che avevano fatto, così pure Giacomo e Gio­vanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Si­mone: ‘Non temere, d’ora in poi sarai pescatore di uomini’. Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono” (Lc. 5,1-11).

Questi due racconti ci testimoniano che i discepoli dopo un primo in­contro, carico di stupore, cominciano a seguire quel rabbi che ha ini­ziato a predicare un messaggio religioso particolare nella Palestina del primo seco­lo dopo Cristo. La loro preoccupazione è la pesca. Ma questo maestro li chiama a seguirlo in vista dell’affermarsi del Regno di Dio sulla terra. Avviene qui un fenomeno diverso dalla tradizione ebraica. Era normale che dei discepoli ebrei si scegliessero un mae­stro, ma qui è il contrario: è il maestro che si sceglie i di­scepoli. Per­sone semplici e rozze. Alcuni di questi erano già discepoli di Gio­vanni il Battista, ma l’incontro con Gesù di Nazareth fu fulminante. Anzi fu proprio Giovanni che li indirizzò a Gesù. Essi cominciarono a seguirlo. Stanno con lui nella normalità della vita: nella sinagoga, nei suoi frequenti spostamenti, sulla riva del lago di Genezareth, op­pure ad una festa di nozze a Cana di Galilea.

Gesù diventa un centro affettivo per i discepoli

E così, attraverso la semplicità di una convivenza umana quella Pre­senza che li aveva colpiti, diventa subito lo­ro centro affettivo. Se Gio­vanni e Andrea, Simone e Giacomo non avessero continuato a fre­quentare il Mae­stro, presto l’avrebbero dimenticato. L’uomo è impa­stato di tempo: e soltanto ciò che si ripete nel tempo si consolida e si radica. Accontentarsi dell’emozione provata nel fascino del primo in­contro, senza favorirla nel suo ripetersi, avrebbe significato vedersela svanire un poco alla volta, finché non ci avrebbero pensato più. Que­gli uomini invece hanno continuato a cercare quell’incontro. Così il rapporto con Gesù è diventato “espe­rienza”: la sua presenza penetra­va sempre più profondamente nel loro animo; ed essi diventavano sempre più appassionati ed appartenenti a Lui. Ma man mano che es­si stanno con lui e lo ascoltano intravedono qualcosa di strano e straordinario insieme in lui, che li affascina. Esperimentano che pa­droneggia la natura: comanda alla bufera del lago di calmarsi, molti­plica i pani per le folle, incontra persone spersonalizzate da malattie ner­vose (indemoniate) e le libera, incontra lebbrosi e li guarisce sull’istante. Si coinvolge con i deboli e i peccatori: si mette dalla par­te delle donne umiliate e le restituisce alla loro dignità. Si mostra su­periore per intelligenza agli intellettuali dell’epoca (scribi e farisei). I gesti straordinari che compiva indirizzarono le loro menti a pen­sare di essere di fronte al Messia atteso da tutta la tradizione ebraica. E Gesù, mentre mostra una potenza so­vrumana, annuncia che con la sua Presenza il regno di Dio è venuto; narra che questo regnare di Dio nel mon­do non accade in maniera gloriosa: anzi che si fa strada come un piccolo seme che deve morire in terra per es­sere fecondo. Così introduce scandalizzando i discepoli che il suo futuro, e con lui il regno di Dio, deve passare attraverso la morte in croce.

Ed egli domandava loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Pietro gli ri­spose: “Tu sei il Cristo”. E ordinò loro severamente di non parla­re di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre gior­ni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardan­do i suoi discepo­li, rimproverò Pietro e disse: “Va’ dietro a me, Sa­tana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8, 29-33).

Una pretesa inaudita

I discepoli non capiscono, ma trattengono di lui l’impressione di es­sere di fronte a un mistero, che si presenta con una pretesa fuori mi­sura rispetto alla loro forma religiosa tradizionale. Seguendolo, s’ac­corgono un poco alla volta dell’eccezionalità della sua persona: sco­prono in lui una diversità radicale dagli altri maestri. Quali sono que­sti poteri e atteggiamenti che impressionano i discepoli?

Gesù rivoluziona il sentimento religioso della vita

Per i farisei la vita era una partita aperta di dare ed avere con Dio, ba­sata sul calcolo dell’osservanza della Leg­ge. Gesù rivoluziona questo atteggiamento un po’ mercantile ed introduce il sentimento della gra­tuità e del perdono come il clima religioso di fondo nel rapporto tra l’uomo e Dio. In più questo cambiamento che Gesù introduce non è una semplice proclamazione a parole, lo fa vedere con le sue azioni. Gesù agisce e mostra un potere di cambiamento, arrogandosi la facol­tà di perdonare i peccati, contravvenendo al principio religioso fon­damentale secondo cui la coscienza dell’uomo è sotto il giudizio di Dio solo. E ciò scandalizza la mentalità degli scribi e farisei cresciuti alla scuola della Legge, perché l’atto di perdonare i peccati promul­gava indiret­tamente un potere divino, che, esercitato da Gesù, appari­va come arroganza religiosa.

“Un giorno, sedeva insegnando. Sedevano là anche farisei e dottori della legge, venuti da ogni villaggio della Galilea, della Giudea e da Gerusalemme. E la potenza del Signore gli faceva operare gua­rigio­ni. Ed ecco alcuni uomini portando sopra un letto un paraliti­co, cer­cavano di farlo passare e metterlo davanti a lui. Non trovan­do da qual parte introdurlo a causa della folla, salirono sul tetto e lo cala­rono attraverso le tegole con il lettuccio davanti a Gesù, nel mezzo della stanza. Veduta la loro fede, disse: ‘Uomo, i tuoi peccati ti sono rimessi’. Gli scribi e i farisei cominciarono a discutere di­cendo: ‘Chi è costui che pronuncia bestemmie? Chi può rimettere pec­cati, se non Dio soltanto?’. Ma Gesù conosciuti i loro ragiona­menti, ri­spose: ‘Che cosa andate ragionando nei vostri cuori? Che cosa è più facile dire: ti sono rimessi i tuoi peccati, o dire: alzati e cammina?  Ora perché sappiate che il Figlio dell’Uomo ha il poter sulla ter­ra di perdonare i peccati: Io ti dico -esclamò rivolto al pa­ralitico- alzati, prendi il tuo lettuccio e va a casa tua’. Subito egli si alzò da­vanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e si avviò verso casa glori­ficando Dio’ (Lc. 5,17-25).

Non solo verso i deboli, ma più ancora verso i peccatori pubblici, Ge­sù mostra la sua benevolenza. Mentre i fa­risei percepivano la necessi­tà di un distanziamento dal mondo dei peccatori per non contaminar­si, Gesù dimo­strava verso di loro una predilezione scandalosa.

“Uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella ca­sa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; e fermatasi dietro si rannicchiò pian­gendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciu­gava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio pro­fumato. A quella vista il fariseo che l’aveva invitato, pensò tra sé: ‘Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è co­lei che lo tocca: è una peccatrice’. Gesù allora gli disse: ‘Simone, ho una cosa da dirti’. Ed egli: ‘Maestro, dì pure. Disse allora Gesù: ‘Un creditore aveva due debitori: l’uno gli doveva cinquecento de­nari, l’altro cin­quanta. Non avendo essi da restituire, condonò il de­bito a tutti e due. Chi, dunque, di loro lo amerà di più?’. Simone rispose: ‘Sup­pongo quello a cui ha condonato di più’. Gli disse Gesù: ‘Hai giudi­cato bene’. E volgendosi verso la donna, disse a Si­mone: ‘Vedi que­sta donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le la­crime e li ha asciuga­ti con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un ba­cio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha co­sparso di pro­fumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdona­ti i suoi molti pecca­ti, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si per­dona poco, ama poco’. Poi disse a lei: ‘Donna ti sono perdonati i tuoi peccati’. Allo­ra i commensali cominciarono a dire tra sé: ‘Chi è quest’uomo che perdona anche i peccati?’. Ma Egli disse alla donna: ‘La tua fede ti ha salvata, va in pace!’ (Lc 7,36-50)”.

Questo brano contiene l’originalità della rivelazione di Gesù. Mentre il fariseo – e con lui tutti gli uomini reli­giosi – credono di potersi “comperare” l’amore di Dio mediante il merito delle proprie buone opere, Gesù mo­stra che la benevolenza di Dio verso l’uomo è un atto gratuito. Gratuità che emerge paradossalmente in una figura umana: la prostituta, la cui caratteristica è di vendere “amore”, la quale, a causa del suo peccato, non può esibire di fronte a Dio alcun merito. Per la legge mosaica, donne di questo tipo dovevano essere emargi­nate e lapidate. Ma Gesù sceglie proprio loro per mostrare che l’amore è sempre e solo dono. L’amore di Dio è pura grazia. La don­na del capitolo settimo di Luca è colei che non avendo nulla da dare, tranne il suo dolore, sta davanti a Dio come pura ricettività. La con­danna di Dio non cade sulle ingiustizie delle creature, quanto sulle “presunte” giustizie dei farisei che portano lontano da Dio, poiché inorgogliscono l’uomo nella sua indi­pendenza da lui. Stranamente un’opera buona compiuta nell’orgoglio allontana da Dio, mentre il peccato vis­suto nell’umiltà avvicina a Lui. Era questo il paradosso che i discepoli dovevano continuamente esperimentare seguendo il loro Maestro. Essi imparavano che l’esistenza è un dono da accoglie­re piuttosto che un debito da estinguere. Stando con Gesù, respirava­no una novità di vita che li distanziava dalla mentalità dei farisei, che consideravano la vita come un conto da saldare con Dio mediante la loro giustizia, e così erano chiusi alla no­vità della Rivelazione che Gesù manifestava sotto i loro occhi. Gesù ha spostato così la visione del mondo dall’idea di giustizia realizzata con le proprie mani a un nuovo tipo di giustizia, quella dell’amore misericordio­so. E questo era una novità impressionante per i discepoli, perché non la vedevano solo predicata, ma pratica­ta da Gesù con una benevolenza costante.

Una padronanza sbalorditiva sulla realtà

Un secondo segno che impressionava i discepoli era il modo tutto na­turale di Gesù di affrontare le asperità della realtà. Le cose, il tempo e lo spazio, obbedivano docilmente a Gesù, senza nessun ‘nessun ap­parato ma­gico’: egli operava trasformazioni immediate della realtà in modo del tutto ‘naturale e spontaneo’ come di chi è padrone della realtà stessa.

“Un giorno salì su una barca con i suoi discepoli e disse: ‘Passia­mo all’altra riva’. Presero il largo. Ora, mentre navigavano, egli si ad­dormentò. Un turbine di vento si abbatté sul lago, imbarcavano ac­qua ed erano in pericolo. Accostatisi a lui, lo svegliarono dicen­do: ‘Maestro, maestro, siamo perduti!  E lui, destatosi, sgridò il vento e i flutti minacciosi; essi cessarono e si fece bonaccia. Allora disse lo­ro: ‘Dov’è la vostra fede?’. Essi intimoriti e meravigliati si dicevano l’un l’altro: ‘Chi è dunque costui che dà ordini ai venti e all’acqua e gli obbediscono?” (Lc 8, 22-25).

Il mare, nell’immaginario degli antichi, era il potere sconvolgente della natura per antonomasia: padrone in­contenibile del caos primor­diale. Su di esso Gesù estende il suo potere. In pochi tocchi, l’evangelista Luca deli­nea il volto potente e sobrio di Gesù quale ap­pariva ai discepoli increduli. Il contesto è drammatico. Tutto è scon­volto, cielo e mare. I discepoli sono sospesi nel vuoto: il vento toglie ogni controllo, l’abisso li sta inghiot­tendo. In mezzo appare il Signo­re vero della creazione. Donde gli proveniva questa energia così di­versa e con­tenuta rispetto alle pratiche magiche di tanti ciarlatani il­lusionisti? Come poteva Gesù essere signore della vita e della morte? Donde attingeva questo potere?

“Ed ecco venne un uomo di nome Giairo, che era capo della sina­go­ga: gettatosi ai piedi di Gesù lo pregava di recarsi a casa sua, poi­ché aveva un’unica figlia, di circa dodici anni, che stava per mo­rire. Du­rante il cammino, le folle gli si accalcavano intorno. Una donna che soffriva di emorragia da dodici anni, e che nessuno era riuscito a guarire, gli si avvicinò alle spalle e gli toccò il lembo del mantel­lo, e subito il flusso di sangue si arrestò. Gesù disse: ‘Chi mi ha tocca­to?’. Mentre tutti negavano, Pietro disse: ‘Maestro, la folla ti stringe da ogni parte e ti schiaccia’. Ma Gesù disse: ‘Qualcuno mi ha tocca­to, ho sentito una forza che è uscita da me’.  Stava anco­ra parlando quando venne uno della casa del capo della sinagoga a dirgli: ‘Tua figlia è morta. Non disturbare più il maestro. Ma Gesù che aveva udito rispose: ‘Non temere, soltanto abbi fede e sarà sal­vata’. Giun­to alla casa non lasciò entrare nessuno con sé, all’infuo­ri di Pietro, Giovanni e Giacomo e il padre e la madre della fan­ciulla. Tutti piangevano e facevano il lamento su di lei. Gesù disse: ‘Non pian­gete, perché non è morta, ma dorme’. Essi lo deridevano sapendo che era morta, ma egli, prendendole la mano, disse ad alta voce: ‘Fanciulla, alzati!’. Il suo spirito ritornò in lei ed essa si alzò all’i­stante. Egli ordinò di darle da mangiare. I genitori ne furono sba­lorditi, ma egli raccomandò loro di non raccontare a nessuno ciò che era accaduto” (Lc. 8, 40-56).

Chi è costui, al cui tocco sono vinte malattia e morte? La liberazione dalla malattia e dalla morte è presentata dai Vangeli come via per ap­prendere la fede, non come pratiche magiche. E la gente, stando con Gesù, capiva sempre più che cosa significasse la fede. La fede è un atto semplice. Lo esprime in modo significativo la donna emorroissa, immagine di chi è colpito dal “mal di vivere”, perché perde sangue, segno di vita. La fede è “tocca­re” Gesù. E’ un “tocco” che sprigiona da lui la vita e l’energia di Dio. Non è un atto magico. Gesù vuole en­trare in rapporto con la donna. La chiama, le risveglia una nuova co­scienza, le mostra la fede come via di vera guari­gione. L’incredulità di fronte a simili gesti è d’obbligo per chi è rinchiuso in una forma di razionalismo, per il quale chi è morto, è morto. Per Gesù non è così. In lui vi è una risorsa che sfida quello scetticismo, che portava gli scettici di turno a “deriderlo” e lascia carichi di stupore i genitori del­la bambina sottratta alla morte.

I documenti evangelici, così sobri nella loro scrittura, contengono questi fatti non come gesti straordinari di Gesù, ma come il suo ordi­nario modo di agire. Era normale la domanda: “Chi è costui?” (Lc 8, 25).

Un’intelligenza che sa penetrare l’intimo dell’uomo

Un altro elemento che conquista i discepoli è l’intelligenza di Gesù. L’intelligenza umana non riesce a cogliere tutta la realtà, vi è sempre qualche residuo di oscurità. Alcuni uomini maggiormente dotati la­sciano incantati gli altri. Così era della scaltrezza dei farisei. Eppure, di fronte a Gesù i loro raggiri mentali si sciolgono come ce­ra al sole. Gesù li costringe a uscire dai loro schemi mentali così rigidi ed im­produttivi. E questo mandava in vi­sibilio la gente mentre loro erano costretti al silenzio.

“Postisi in osservazione, mandarono informatori, che si fingessero persone oneste, per coglierlo in fallo nelle sue parole e poi conse­gnarlo all’autorità e al potere del governatore. Costoro lo interro­ga­rono: “Maestro, sappiamo che parli e insegni con rettitudine e non guardi in faccia a nessuno, ma insegni secondo verità la via di Dio. E’ lecito che noi paghiamo il tributo a Cesare?”. Conoscendo la loro malizia, disse: “Mostratemi un denaro: di chi è l’immagine e l’iscri­zione?”. Risposero: “Di Cesare”. Ed egli disse: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Così non po­terono co­glierlo in fallo davanti al popolo e, meravigliati della sua ri­sposta, tacquero (Lc 20, 20-26).

La genialità di Gesù sta nel rovesciare il dilemma sulla libertà degli interroganti, chiamandoli imprevedibilmen­te in gioco. Loro da inter­roganti diventano interrogati. Uguale perspicacia nel risolvere la que­stione di una donna sorpresa in adulterio, ribaltando con sorprendente abilità l’accusa sugli accusatori.

“Gli scribi e farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: “Maestro, questa donna è stata sor­presa in flagrante adulterio. Ora Mosè nella Legge ci ha co­mandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Questo dice­vano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chi­natosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome in­sistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza pecca­to scagli la prima pietra contro di lei”. E chinatosi di nuo­vo scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, comin­ciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi, allora Gesù le disse: “Donna, dove so­no? Nessuno ti ha condannata?”. Ed essa rispose: “Nessuno, Signo­re”. E Gesù le disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8, 3-11).

La sua intelligenza penetrante lo portava a cogliere l’intimo dell’uo­mo, non per dominarlo, ma per risvegliarlo alla verità. Per questo il suo sguardo, che più di tutto colpiva nella sua persona, era pieno di comprensione verso ogni uomo. Lo prendeva sul serio, s’appoggiava sul positivo che trovava e tendeva ad allargarlo, valoriz­zando i più piccoli segni di apertura che incontrava. E’ il caso della donna di Sa­maria al pozzo che si sente compresa come mai nessuno fino ad allo­ra era riuscito a fare.

“Gesù stanco del viaggio sedeva presso il pozzo di Giacobbe. Era verso mezzogiorno. Arrivò una donna di Samaria ad attingere ac­qua. Le disse Gesù: “Dammi da bere”. Ed essa gli disse: “Come mai tu che sei giudeo chiedi da bere a me che sono samaritana?”. I giu­dei, infatti, non mantengono buone relazioni con i samaritani. Gesù le rispose: “Se tu conoscessi il dono di Dio e colui che ti dice ‘Dammi da bere!’, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva”. Gli disse la donna: “Signore, tu non hai un mez­zo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest’ac­qua viva? Sei forse più grande di nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i suoi greggi?”. Disse Gesù: “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà più sete in eterno; anzi l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua viva che zampilla per la vita eterna”. “Signore -gli disse la donna- dammi di que­st’ac­qua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attin­gere acqua”. Le disse: “Va’ a chiamare tuo marito, e poi ritor­na qui”. Rispose la donna: “Non ho marito”. Le disse Gesù: “Hai detto bene: non ho marito; infatti, hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero”. Gli repli­cò la don­na: “Signore, vedo che tu sei un profeta” (Gv 4, 4-20).

L’intelligenza di Gesù è giocata all’interno di una relazione che av­vince. E’ un’intelligenza pienamente umana, non l’intelligenza del burocrate o del potente. Apre lo sguardo dell’uomo verso la verità che è occultata dalle idee dei tempi, dalle sclerosi formaliste della so­cietà che costruisce continuamente le proprie difese contro la paura delle deviazioni. Gesù è libero, perché conosce la realtà nel suo de­stino di verità. Perciò può parlare li­beramente, costringendo la donna di Samaria ad uscire dalla propria menzogna. L’intelligenza di Gesù è spon­taneamente orientata alla verità, perciò è libera. E può sfidare l’incomprensione dei discepoli, che erano “me­ravigliati che parlasse con una donna” (Gv 4, 27).

Della stessa profonda comprensione si sentì avvolto Zaccheo, il capo degli usurai di Gerico. Gesù fece leva sul “suo desiderio di vederlo” per offrirsi a lui per cambiarlo. L’incontro tra Gesù e Zaccheo realiz­za quella salvezza impossibile all’uomo ma non a Dio: “E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco en­tri nel regno di Dio! Ma ciò che è impossibile all’uomo è possibile a Dio” (Lc 18, 27). Zaccheo è l’immagine del­la salvezza compiuta: Dio e l’uomo si possono riposare l’uno nell’altro e quindi possono cessare ogni ricerca l’uno dell’altro.

“Entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora, corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sico­mo­ro, poiché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zaccheo scendi subito, perché oggi de­vo fermarmi a casa tua”. In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. Ve­dendo ciò, tutti mormoravano: “E’ andato ad alloggiare da un pecca­tore!”. Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: “Ecco, Signo­re, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto”. Gesù gli rispose: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo; il Fi­glio dell’uomo, infatti, è venuto a cercare e a salvare ciò che era perdu­to” (Lc 19, 1-10).

L’intelligenza e la potenza Gesù non le usava per una propria esalta­zione, ma se ne serviva per venire incontro ai bisogni della gente. Sovente chi si sente potente è portato a sottovalutare i deboli. Invece la potenza di Ge­sù era abbinata a bontà, a misericordia, a tenerezza e a grande capacità di comprensione, in un equilibrio dif­ficile da ri­scontrare nell’esperienza umana. Gesù provava commozione per il fi­glio della vedova di Naim (Lc 7, 11-17); mostrava grande capacità di mettersi in rapporto con i bambini che annoiavano con il loro chiasso gli adulti (Mt 18, 1-11). I bambini che non contavano nulla fino alla maggiore età: erano “cose” nelle mani degli adulti, vengono invece considerati come persone da Gesù, operando una rivoluzione cultura­le nella sua socie­tà. Ed ancora non temeva di prendere iniziativa in favore di una povera donna, altro “oggetto” su cui i maschi esercita­vano un potere incondizionato nella società del tempo.

“Una volta stava insegnando in una sinagoga il giorno di sabato. C’era una donna che aveva da diciotto anni uno spirito che la tene­va inferma; era curva e non poteva raddrizzarsi in nessun modo. Gesù la vide; la chiamò a sé e le disse: “Donna sei libera dalla tua infer­mità”, e le impose le mani. Subito quella si raddrizzò e glorifi­cava Dio. Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, rivolgendosi alla folla, disse: “Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli, dunque, venite e non in giorno di sabato”. Il Signore replicò: “Ipocriti, non scio­glie forse di sabato ciascuno di voi il bue o l’asino dalla mangia­toia, per condurlo ad abbeverarsi? E questa figlia di Abramo che satana ha tenuto lega­ta da diciotto anni, non doveva forse essere sciolta da questo legame in giorno di sabato?”. Quando egli diceva tutte queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla in­tera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute” (Lc,13, 10-17).

Ecco l’abbinamento sconvolgente che stupiva i discepoli: aveva un’intelligenza pratica che umiliava la presun­zione dei maestri reli­giosi del tempo ed insieme abbracciava con tenerezza la condizione sofferente di tutti, poveri e ricchi, purché aperti al mistero di Dio. La conclusione era sempre la stessa: il suo agire faceva esultare la folla, perché intuiva che era arrivata per loro la salvezza; e rendeva sempre più ostili gli intellettuali religiosi della sua terra (scribi, farisei e sa­cerdoti del tempio).

Lo scandalo supremo: la morte in croce e la risurre­zione

In sintesi, Gesù si manifesta come padrone della natura creata mo­strandosi simile al Creatore; si arroga il po­tere sul sabato il tempo proprio di Dio; perdona i peccatori, facendo un’azione che appartiene a Dio solo. La sua figura fa sorgere una domanda negli intellettuali religiosi dell’epoca: “Ma chi crede di essere quest’uomo? Avrà mica la presunzione di paragonarsi a Dio?”. E’ uno scandalo insopportabi­le per un ebreo. E’ degno di morte. Lo richiedeva la Legge (Lev 24, 16): “Non ti lapidiamo – diranno i Giudei a Gesù nell’ultima settima­na della sua vita – per le opere buone, ma perché tu che sei uomo ti fai Dio” (Gv 10, 34).

La ragione religiosa della morte in croce di Gesù

E il sommo sacerdote sentenzierà solennemente in una seduta del Si­nedrio: Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dissero: “Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lascia­mo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e di­struggeranno il nostro tempio e la nostra nazione”. Ma uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno, disse loro: “Voi non ca­pite nulla! Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione in­te­ra!”. Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sa­cerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la na­zio­ne; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i fi­gli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno, dunque, decisero di ucciderlo (Gv 11, 47-539.

La morte di Gesù sarebbe stata una delle tante morti che si susseguo­no sulla faccia della terra, se non ci fosse stato un evento che l’ha tratta fuori dalla normalità della storia quotidiana degli uomini. E questo è l’evento della risurrezione. Evento che viene testimoniato in maniera unanime dagli apostoli, poiché hanno visto ed esperimentato Gesù come “risorto”.

I discepoli dopo la sua morte – anche se avessero voluto – non avreb­bero potuto “andare avanti” e sostenere la “sua causa” conservando semplicemente la sua memoria. La morte di Gesù, infatti, aveva mes­so in discus­sione non solo il suo messaggio, ma la sua stessa perso­na. Quella morte in croce significava la maledizione di Dio, perché quest’uomo aveva osato farsi come Dio.

L’evento della risurrezione di Gesù esperimentato dagli apostoli

I fatti sono noti: poco tempo dopo l’esecuzione di Gesù in croce, i di­scepoli, dileguatisi e ritornati in Galilea, li ritroviamo improvvisa­mente e sorprendentemente di nuovo a Gerusalemme. Essi strana­mente si radunano in questa città, che era divenuta per loro inospitale e pericolosa (e non nella assai più sicura Galilea, lontana dal centro religioso che aveva giustiziato Gesù); e proprio qui, a Gerusalemme, costituiscono la prima comunità di credenti in Gesù. Questa “svolta improvvisa e inspiegabile” dei discepoli, viene spiega­ta in maniera unanime dal Nuovo Testa­mento – dai primi strati della tradizione fino agli ultimi scritti – con la risurrezione di Gesù. La cer­tezza che Ge­sù, dopo essere morto crocifisso, fosse risorto non fu mai oggetto, in tutto il cristianesimo primitivo, di alcuna oggettiva diver­sità di opinione, bensì solo di una concordanza unanime. E’ vero che i racconti neotestamentari della risurrezione, pur concor­dando per l’essenziale, sono piuttosto sconnessi e presentano diffe­renze e diversità. Ciò fu in passato considerato come indice della loro non atten­dibilità. In realtà tali differenze invece che inclinare a ne­garne la storicità, ne costituiscono la garanzia, poiché sono segno che nella comunità primitiva non c’è stata manipolazione per accordare gli eventi narrati. Un elemento a favore della storicità e autenticità dei testi canonici sulla risurrezione è il fatto che nessuno vie­ne presentato come testi­mone diretto del fatto della risurrezione, e perciò la sua descrizione viene sempre evi­tata. Solo il Vangelo apocrifo di Pietro (9, 35-43), del secondo secolo, cede alla tentazione di descriverlo con realismo “da fotografia”, pensando in tal modo di poterne dare la prova diretta dell’autenticità della risurre­zione. Ma secondo la testimonianza neotestamentaria, la non accessibilità diretta dell’accadimento della risurrezione di Gesù è connessa al fat­to che – diversamente dalle rianimazioni di morti operate da Elia, Eli­seo e Gesù stesso, – non vi è qui un ristabilimento della vita prece­dente o il ritorno alla vita terrena e mortale di un morto in condizioni empiricamente constatabili. La risurrezione di Gesù, infatti, coincide con il passaggio alla forma di una vita radicalmente nuova, gloriosa e indistruttibile, come dice Paolo:

“Sappiamo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte, egli morì … una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio” (Rom 6, 9 ss.).

Il fatto della risurrezione giunge a noi attraverso l’esperienza dei di­scepoli che attestano di aver incontrato il Risorto. Ciò che è raggiun­gibile direttamente è la fede pasquale dei discepoli o, più precisamen­te, il fatto della loro unanime affermazione attestante che Gesù si è manifestato loro risorto.

La ripresa memoriale dell’esperienza vissuta con Gesù e il riconoscimento della sua figliolanza divina nella fe­de

Dopo la risurrezione i discepoli cominciarono a ricordare e a ripensa­re la loro esperienza vissuta con Gesù. So­lo allora si sono resi conto di avere vissuto a contatto con il Figlio di Dio che si era fatto uomo. E ripresero a ri­cordare tutto quello che avevano vissuto con lui. All’inizio era un racconto orale e solo dopo venne scritto nei Vangeli per l’esigenza dei loro primi incontri nelle piccole comunità di cre­denti che celebravano la memoria di Gesù nell’eucaristia come Egli aveva raccomandato loro. E cominciarono ad annunciarlo. Era un an­nuncio in­credibile e, dal punto di vista storico, non aveva nessuna possibilità di affermarsi. Eppure, cambiò il mondo, introducendo la certezza che Dio si era fatto uomo ed aveva condiviso la condizione umana introducendovi la certezza del suo riscatto per l’eterno. I primi cristiani non ebbero paura di affrontare la morte, poiché erano sicuri della promessa di Gesù: “Io sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, anche se muore vivrà, e chiun­que e vive in me, non morirà in eterno” (Gv 11, 25).

Tutto ciò che il NT riferisce di Gesù, le sue parole, le sue azioni, i suoi miracoli, si trova nel raggio di luce di questo avvenimento par­ par­ticolare, anzi, è attraversato e penetrato da questo raggio. Il mes­saggio che gli apostoli proclamano con autorità nel nome di Ge­sù è interamente determinato dal fatto che è stato loro trasmesso e affi­da­to dal Signore risuscitato da morte. L’avvenimento della Pasqua è in qualche modo la lente attraverso il quale gli apostoli e la co­munità primitiva hanno rivisto l’uomo-Gesù, in tutta la diver­sità della sua relazione del tutto unica con essi: Egli era Colui che era e che viene (cf Ap 4, 8). Lui era il Figlio di Dio” (K. Barth)

Queste lente però non ha deformato quello che avevano vissuto. Hanno avuto il coraggio di narrare quello che avevano esperimentato senza timore di presentare l’incredulità dei loro capi, il tradimento di Pietro e Giuda, la fuga di tutti durante la passione, l’affidamento della scoperta della risurrezione a delle donne a cui non era riconosciuta per cultura alcuna validità di testimonianza reale. In conclusione, il cristianesimo non sarebbe mai nato se ci fosse stata solo la crocifissione senza la risurrezione di Gesù. Il cristianesimo e la Chiesa hanno origine da questo annuncio inaudito: “Dio ha risusci­tato Gesù dalla morte e noi ne siamo testimoni” (At 2, 38). Tutto il cristianesimo sta o cade con l’autenticità reale dell’annuncio della risurrezione. Se non ci fosse stata la risurrezione Gesù sarebbe probabilmente ancora ricordato come si ricordino Socrate, Confucio, Budda o qual­siasi altra persona importante. Di Gesù probabilmente si citerebbe ancora qualche “detto” paradossale come le beatitudini e il precetto dell’amore, o lo si ricorderebbe come maestro di sapienza e di morale, o ancora come un uomo come tanti altri assassinato dall’ingiustizia umana. Non solo. Senza la risurrezione, non avremmo nemmeno i testi neotestamentari che sono impregnati dalla certezza del Cristo glorioso perché so­no stati scritti per ricordare la sua figura vivente nella comunità cristiana.

La fede in Gesù Figlio di Dio è sorta dalla ripresa memoriale de­gli avvenimenti che i discepoli avevano vissuto

Dopo l’evento della risurrezione di Gesù i discepoli ripensano la loro esperienza vissuta con lui ed ora sono in grado di capire quelle parole che Gesù durante la vita terrena consegnava loro, ma che allora non capivano. In particolare, comprendono quanto Gesù aveva detto loro circa il suo rapporto con il Padre: un rapporto unico ed esclusivo. Il padre per Gesù era “il Padre mio”, e si diversificava dal modo con cui i discepoli potevano ri­volgersi a Lui chiamandolo “Padre nostro”. Facciamo uno sforzo di fantasia. C’è una grande sala addobbata a fe­sta. E’ notte. C’è più ombra che luce. Dodici uomini riuniti attorno al loro maestro, lo ascoltano attenti e im­pressionati mentre dice cose di vita. Proviamo a pensare che impressione deve aver provocato in loro quell’istante in cui quell’uomo sospende la voce – quell’uomo che avevano frequentato da tre anni, di cui co­noscevano il mestiere, il pa­dre e la madre, con cui avevano mangiato e camminato per le strade di Palestina – trattiene un poco il respiro e dice: “Io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14,11). Chissà che brivido avranno provato a fior di pelle, loro ebrei educati a non immaginare Dio: perché sentire uno dire così equivaleva al fat­to di dire che Lui era Dio. E questo non era che ripetere quello che già aveva detto pubblicamente ai giudei, qualche giorno prima, sotto il portico di Salomone nel tempio di Ge­rusalemme: “Io e il Padre siamo una sola cosa” (Gv 10, 30). Ed an­cora prima nel suo insegnamento all’aperto: “Nessuno conosce il Fi­glio se non il Padre, né chi è il Padre se non il figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Lc 10,22=Mt 11,27). Quell’uomo lì era Dio, perché diceva che “nessuno può andare al Padre senza di Lui” (Gv 14, 6); e quando uno di quei dodici, sempre in quella penombra in cui egli stava confidando il mistero che portava in sé, gli doman­dò:” Mostraci il Padre e ci basta”; egli risponde: “Da tanto tempo so­no con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre, come puoi tu dire ‘Mostraci il Padre’?” (Gv 14,8). Ma che pretesa ha quest’uomo? Quegli uomini erano costretti ad un’alternativa o dare fiducia alle parole incomprensibili di quell’Uomo oppure ri­prendersi il loro modo di ragionare terra terra e tornarsene a casa loro e alle loro occupazioni quotidiane. Su questa pretesa si sono divisi e sempre si divideranno gli uomini. La pretesa con cui si presenta infatti costringe quelli che lo hanno incontrato a decidere: se accettare quello che afferma di sé oppure rifiutarlo. Di fronte a Lui si apre la drammatica alternativa: o seguirlo – secondo il suo insegnamento – come bambini aperti al mi­stero oppure chiudersi nel proprio scetticismo. Non si può suggerire a Dio in quale modo debba manifestarsi. Dio si è dato nel volto umano di Gesù di Naza­reth. Qui si apre la comprensione dell’identità profonda di Gesù di essere il Figlio di Dio, e perciò la Verità che spiega l’origine e la de­stinazione dell’uomo.

Abbiamo aperto la strada per contemplare il Mistero eterno di Dio di essere una comunione di Padre, di Figlio e di Spirito Santo.

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